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Big data: ricatto al vescovo Usa

Allarme privacy, potrebbero diventare un’arma

Età, sesso, spostamenti, preferenze di ricerca: sono solo alcuni dei dati raccolti dalle applicazioni digitali e dai siti Web che poi vengono venduti a terze parti. Il cosiddetto mercato dei big data infatti costituisce ormai l’unico luogo a cui attingere per cercare di profilare i target di riferimento di varie aziende di prodotti e servizi, per fare ricerche di mercato e di marketing. Ma cosa succede alla privacy?

Teoricamente questi dati dovrebbero essere anonimi. Informazioni quali il nome, l’orientamento sessuale, lo stato di salute, insomma ciò che definiamo “informazioni sensibili”, non sono raccolte dai sistemi di tracciamento online, come ad esempio i cookies, o non sono incluse nei pacchetti di compravendita.

Tuttavia, già nel 2013 una ricerca aveva evidenziato che basta incrociare quattro dati che invece vengono trasmessi, per esempio posizione, codice di avviamento postale, età e sesso, per riuscire a risalire ad una identità specifica nel 95% dei casi.

È proprio quello che è accaduto al vescovo americano Jeffrey Burrill, che è stato costretto a dimettersi dopo che una testata scandalistica americana, il The Pillar, ha scoperto, grazie all’acquisto e all’incrocio di alcuni pacchetti di dati teoricamente anonimi di una famosa app, che frequentava alcuni bar gay.

Dov’è allora quella tutela all’anonimato che chi commercia i pacchetti di dati assicura come assolutamente severa? Com’è possibile che una testata giornalistica abbia potuto avere il potere di minacciare l’ex Segretario Generale della Conferenza episcopale americana?

L’iter è molto semplice: Grindr, l’app di incontri in questione, colleziona dati da tutti gli utenti registrati e, per proteggere l’anonimato, assegna ad ogni utente un codice specifico univoco al posto del nome. Dopodiché vende questi dati a delle società interessate a questo mercato sotto forma di pacchetti. The Pillar ha acquistato questi pacchetti e incrociando le posizioni GPS e il tempo trascorso a casa dei genitori e alla curia americana e la posizione di famosi bar e saune gay, non è stato troppo difficile riuscire a risalire ad un nome ed un cognome.

La questione suscita dei problemi etici e di privacy evidentemente. Se dovessimo pensare che un qualsiasi giornalista con intento d’inchiesta può risalire a tutte le nostre abitudini online, dove ormai si svolge almeno il 50% della nostra vita sociale, come la prenderemmo?

Gli esperti sono in allarme: “E’ la prima volta, che io sappia, che un’entità giornalistica traccia una specifica persona e usa le informazioni raccolte come arma.  Questo è esattamente il tipo di minaccia alla privacy che abbiamo descritto per anni”- afferma Bennett Cyphers, della Electronic Frontier Foundation, che si occupa di diritti digitali e della privacy.

In effetti gli innocui cookies che sovrappensiero accettiamo di concedere ad ogni sito web che visitiamo e ad ogni applicazione che scarichiamo sul cellulare potrebbero diventare una terribile arma di ricatto in mano a chi sa come trafficare con i dati. E non c’è neanche nulla che si possa fare: se si vogliono godere dei privilegi e dell’utilità di Internet è il più delle volte obbligatorio concedere il proprio consenso alla raccolta di questi dati.

Non guasterebbe, tuttavia, un po’ di consapevolezza: non esistono servizi funzionanti e gratuiti su internet, semplicemente li paghiamo con i nostri dati personali. Possiamo, al momento, solo sperare di non rientrare mai in quel circolo di sfortunati che, a ragion veduta o per scopi non giustificati, finiscono sotto la lente di un’inchiesta scandalistica, sperando che a nessuno mai interesseranno gli scheletri che abbiamo nell’armadio.