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‘Come votano le periferie. Comportamento elettorale e disagio sociale nelle città italiane’, di Marco Valbruzzi

Prof. Marco Valbruzzi, Lei ha curato l’edizione del libro Come votano le periferie. Comportamento elettorale e disagio sociale nelle città italiane edito dal Mulino: quali trasformazioni hanno caratterizzato nell’ultimo decennio il comportamento elettorale all’interno delle città?

Come votano le periferie. Comportamento elettorale e disagio sociale nelle città italiane, Marco ValbruzziNell’ultimo decennio abbiamo osservato trasformazioni radicali nel comportamento elettorale all’interno delle città e, di riflesso, anche nei comuni di medie e piccole dimensioni. Sono state trasformazioni che hanno creato un fossato sempre più netto tra le forze in senso lato progressiste, fortemente radicate nei grandi centri urbani, e i partiti conservatori di destra. Si pensi, solo per fare un esempio, che alle ultime elezioni Europee il Partito Democratico ha ottenuto circa 15 punti percentuali in più nelle città superiori ai 300mila abitanti rispetto ai piccoli comuni con 5mila abitanti, e lo stesso fenomeno si è registrato – ovviamente con tendenze opposte – nel caso della Lega salviniana.

Ma questo dualismo geografico non è limitato alle grandi città o ai piccoli centri. L’elemento estremamente interessante, su cui si concentra il nostro volume, è che il dualismo tra centro-periferia si riproduce, in una diversa scala, anche all’interno delle principali città metropolitane. In questo caso assistiamo a un arroccamento progressivo dei partiti di centrosinistra, soprattutto con le elezioni Politiche del 2018, nei quartieri borghesi o benestanti delle città italiane, a cui fa da contraltare un tendenziale abbandono delle periferie popolari, dove disagio sociale e degrado urbano creano un mix esplosivo per la crescita del voto – o del non-voto – di protesta. È in quel momento che periferia e populismo stringono un patto elettorale.

Quale dualismo si è andato consolidando tra centri e periferie urbane?

Innanzitutto, è importante indicare il periodo o, meglio, il momento in cui questo dualismo si è definitivamente rivelato. La rottura vera, soprattutto nel campo del centrosinistra, è avvenuta con le elezioni «straordinarie» del 2018: è in quel momento che il Partito Democratico (assieme alle altre forze progressiste) rompe con una tradizione socialdemocratica che ne radicava il consenso nei quartieri popolari delle città italiane e ne ridisegna il perimetro del consenso urbano, oggi sempre più prevalente nei quartieri socialmente centrali – più ricchi e più colti – delle metropoli italiane. Con quelle elezioni il PD diventa l’espressione della borghesia bohémienne urbana, progressista e multiculturalista sul piano culturale e tiepidamente pro-mercato sul piano economico. In questo modo, si impone una “sinistra braminica” – per usare l’espressione di Thomas Piketty – cioè una sorta di casta intellettuale benestante che vive nei quartieri più agiati e socialmente più protetti delle città italiane. Quello che i quotidiani etichettano come il “partito delle Ztl”.

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Però, questa trasformazione dei connotati elettorali del centrosinistra italiano (in linea, peraltro, con altri partiti progressisti europei) ha prodotto un contraccolpo immediato e automatico: i quartieri popolari, le cosiddette “periferie”, che sono state abbandonate dai partiti di sinistra, hanno rivolto le loro domande e le loro speranze elettorali altrove, cioè a partiti che si sono incaricati di raccogliere la nuova montante rabbia sociale, Lega e soprattutto Movimento 5 Stelle. In particolare nelle città del Sud, il megafono delle periferie è stato il Movimento grillino, che è riuscito a dare voce al crescente disagio sociale innescato dalla crisi economica attraverso un messaggio populista dalle tinte egualitariste e dagli intenti redistributivi. Invece, nelle città del Centro-nord la competizione in periferia è avvenuta soprattutto tra il M5S e la Lega, che si sono contesi il consenso delle aree urbane popolari, dove sono maggiormente concentrati operai e disoccupati.

Quali ripercussioni è destinata ad avere sulla geografia elettorale delle periferie urbane la pandemia?

Con la pandemia si apre uno scenario nuovo, dove alle vecchie aree del disagio si aggiungono, senza sovrapporsi, nuove aree di malessere sociale ed economico. Di conseguenza, la geografia elettorale della Grande Recessione – se così vogliamo definirla – potrebbe risultare molto diversa dalla geografia elettorale della pandemia, anche con effetti “originali” rispetto alla situazione precedente, con nuove sacche di disagio – che si vanno ad aggiungere a quelle già note – annidate nei quartieri centrali o dei centri storici delle nostre città. Per ora, è molto difficile capire quali scelte politiche faranno questi ceti sociali. In passato, una parte del malessere sociale delle periferie confluiva nell’astensione: tra i quartieri agiati e quelli disagiati delle città italiane si è registrato, in media, un gap di astensione di circa 8 punti percentuali, ovviamente a danno dei quartieri socialmente periferici. È probabile che in futuro questo distacco nella partecipazione elettorale aumenti ulteriormente, soprattutto se nel frattempo non dovessero sorgere nuovi attori politici – o rinnovate proposte politiche – in grado di intercettare il disagio proveniente dalle vecchie e nuove periferie sociali. A quel punto il malessere sociale potrebbe trasformarsi in malessere democratico, come un processo di affaticamento o appannamento della rappresentanza politica.

Quali attori politici, nuovi o vecchi, si faranno interpreti del montante disagio sociale?

Sul passato, anche piuttosto recente, abbiamo risposte abbastanza certe: sono stati il M5S e la Lega a farsi interpreti dell’onda lunga del disagio sociale prodotto dalla Grande Recessione. Con sfumature diverse, dando maggiore risalto, di volta in volta, a elementi identitario-culturali o di tipo socioeconomico, quei due partiti hanno rappresentato una valvola di sfogo per i ceti sociali più disagiati e più arrabbiati della popolazione italiana. Naturalmente, queste aree del disagio non sono scomparse e, in parte, l’emergenza sanitaria le ha ulteriormente allargate. Ma gli effetti economici della pandemia hanno pesato soprattutto sulle donne, sulle giovani generazioni con contratti di lavoro precario e sui lavoratori autonomi (piccoli imprenditori, commercianti, una parte di liberi professionisti). Questo significa che anche la geografia urbana del disagio sociale potrebbe risultare profondamente mutata per effetto della pandemia, collocandosi anche in aree centrali delle città italiane.

Esiste quindi una doppia finestra di opportunità per chi intenda farsi interprete del disagio sociale nelle città italiane. Da un lato, le tradizionali periferie si sono sentite “sedotte e abbandonate” dai partiti populisti che sono andati al governo negli ultimi anni: M5S e Lega. E questo apre un nuovo fronte di competizione all’interno del quale si sta inserendo Giorgia Meloni che, come esponente dell’unico partito di opposizione al governo Draghi, ha maggiore credibilità e spazio di manovra rispetto ai suoi diretti rivali. In parte, lo abbiamo già visto nelle ultime elezioni Amministrative, con una concorrenza di Fratelli d’Italia nei confronti della Lega nelle città del Centro-nord e verso il M5S in alcune realtà del Mezzogiorno. In vista delle prossime elezioni Politiche, sarà importante – e forse decisivo – dunque capire chi riuscirà a intercettare i flussi di voto in uscita dai quartieri socialmente periferici delle città italiane.

C’è, però, dall’altro lato, anche l’espandersi delle aree di disagio ai nuovi ceti sociali maggiormente colpiti dalla pandemia e che, al momento, restano sul mercato elettorale senza una proposta politica in grado di intercettare le loro esigenze. Alle ultime Amministrative, buona parte di quelle aree ha scelto di non scegliere, nel senso che si è rifugiata nell’astensione. Ma quando arriverà il momento delle elezioni Politiche, al più tardi nel 2023, quei ceti sociali e quelle aree urbane torneranno alle urne scegliendo tra le principali opzioni oggi in campo. Oppure, ed è un’ipotesi molto probabile, si troveranno di fronte a nuove proposte partitiche, al momento non prevedibili. Con il voto di ottobre abbiamo visto crearsi un vulnus, un vuoto di rappresentanza che le attuali forze politiche non sono riuscite a colmare. Non si può escludere, quindi, che nuovi imprenditori politici stiano valutando come inserirsi in questo nuovo scenario elettorale terremotato dalla pandemia.

Marco Valbruzzi insegna Scienza politica all’Università di Napoli Federico II. Dal 2017 al 2019 è stato responsabile dell’area politico-elettorale dell’Istituto Carlo Cattaneo. Per Il Mulino ha curato, con R. Vignati, Il vicolo cieco. Le elezioni del 4 marzo 2018. Il suo ultimo libro, scritto con D. Campus e N. Switek, è Collective leadership and divided power in West European parties (Palgrave, 2021).