Cassazione, criticare l’azienda su Facebook ora può costarvi il posto di lavoro
Criticare il datore di lavoro ora può giustificare il licenziamento per insubordinazione, lo ha stabilito una recente sentenza della Cassazione
Criticare l’azienda su Facebook ora può costarvi il posto di lavoro: lo ha confermato una recente sentenza della Cassazione, chiamata ad esprimersi su un licenziamento disciplinare intimato nei confronti di un dipendente che aveva pubblicato sul proprio profilo Facebook dei post – pubblici – contenenti critiche (e offese) indirizzati ai propri superiori.
Parla male della propria azienda su Facebook, lavoratore licenziato: la ricostruzione dei fatti
Forse non tutti sono ancora consapevoli dei rischi ai quali si può andare incontro in caso di uso poco responsabile dei social (qui alcuni casi che hanno fatto scalpore). Spesso i propri profili vengono usati per dare sfogo alle proprie preoccupazioni, senza però una vera e propria idea su quelle che potrebbero essere le conseguenze di certe esternazioni (soprattutto le più critiche).
A rischi concreti, per esempio, si espongono i lavoratori che usano i propri spazi social per avanzare critiche e offese nei confronti dell’azienda che li ha assunti. Lo ha confermato la Cassazione, stabilendo anche in quali casi è legittimato il licenziamento disciplinare (qui tutto quello che c’è da sapere sul procedimento)
La Corte Suprema, con la sentenza n. 27939 del 13 ottobre 2021, si è espressa nello specifico in merito ad un fatto che ha coinvolto un dipendente, cui comportamento è stato giudicato tale da ledere il rapporto di fiducia che il legislatore riconosce alla base di ogni rapporto di lavoro.
Al centro della disputa, usate come fatti e prove che hanno giustificato il licenziamento da parte del datore di lavoro, delle comunicazioni via mail e la pubblicazione di post sul profilo Facebook del lavoratore (quest’ultimo legittimamente acquisibile, in quanto non assistito da segretezza per la sua conoscibilità anche da terzi), cui contenuto è stato definito dalla Corte d’Appello di Roma come “gravemente offensivo e sprezzante nei confronti delle sue dirette superiori e degli stessi vertici aziendali”.
Quando criticare il proprio datore di lavoro su Facebook può portare al licenziamento: la sentenza
Come si evince dalla sentenza della Cassazione, non è una semplice critica nei confronti dell’azienda che ha esposto il lavoratore al licenziamento, quanto più un comportamento “offensivo” e “sprezzante” nei confronti della stessa, tanto da compromettere – come già detto – il rapporto di fiducia con i superiori.
Inoltre, il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale) è stato considerato “idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”, tale da integrare gli estremi della diffamazione e costituire giusta causa di recesso, per lesione del vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo (così come previsto dalla sentenza Cass. 27 aprile 2018, n. 10280).
Il licenziamento, in questo caso, può considerarsi licenziamento giustificato (qui la definizione) poiché la nozione di insubordinazione deve essere intesa in senso ampio, poiché “nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, essa non può essere limitata al rifiuto del lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale” (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 e la più recente 19 aprile 2018, n. 9736, in riferimento ad un rapporto di lavoro pubblico).
Infatti, come spiegato, l’insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale. Pertanto, “la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli (Cass. 11 maggio 2016, n. 9635)”.