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Luigi Di Maio, ultimo atto: fine di un amore

Luigi Di Maio, alla fine, ha tenuto fede al suo ‘programma’. Uscire dal M5S. Detto fatto. L’ufficializzazione della nascita del nuovo gruppo parlamentare, ‘Insieme per il Futuro’, è stata annunciata in un incontro all’hotel Bristol di piazza Barberini. L’attuale ministro degli Esteri lascia, dunque, il partito che ha contribuito a far crescere nelle aule parlamentari, fin dal 2013, e poi dal 2017 al 2020 come capo politico nelle urne. Il suo addio ai 5Stelle non è stato facile e nemmeno improvvisato: i motivi che hanno portato più di 60 parlamentari, tra Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, ad abbandonare ‘tout court’ un partito vanno ricercati nel passato, nella storia stessa del partito e nella visione futura dello stesso per il Paese. Non è stata una operazione improvvisata ma meditata, studiata e realizzata avendo precisi obiettivi e rassicurazioni. Sicuramente avrà pesato il problema del doppio mandato, regola aurea del Movimento, che sbarra le porte del potere a tanti parlamentari ‘grillini’. Di Maio nega che sia questo il punto di rottura, ma di fatto, restando nel M5s la sua carriera politica aveva una data di scadenza. Il paracadute da parte di Beppe Grillo non è arrivato: l’elevato ha bocciato qualsiasi deroga al doppio mandato. A questo si aggiungono i pessimi rapporti tra Di Maio e Giuseppe Conte, nonostante l’attuale capo della Farnesina avesse ‘incoronato’ l’avvocato del popolo, leader maximo del Movimento. E poi il fattore Draghi: per il premier governare con un’opposizione interna (quella M5s) che contesta le sue scarse comunicazioni al Parlamento e alcune delle strategie, non solo di politica estera, era ed è un problema da risolvere. Non è escluso a priori che il Presidente del Consiglio abbia, in qualche modo, incoraggiato le mosse di Luigi Di Maio.

L’abiura del ministro degli Esteri è totale: “Uno non vale l’altro. L’esperienza, le competenze di ciascuno devono contare. Bisogna avere il coraggio di dire la verità agli italiani”. Il tempo dei Vaffa, dei gilet gialli francesi e degli attacchi a Sergio Mattarella sono un ricordo sbiadito. Luigi Di Maio critica senza mezzi termini “l’ambiguità in politica estera del Movimento 5 Stelle”. “Non possiamo stare dalla parte sbagliata della storia”. “Pensare di picconare la stabilità del governo, e quindi di un Paese intero, solo per ragioni legate alla propria crisi di consenso è da irresponsabili”. E poi: essere “europeisti e atlantisti non può essere una colpa”. Il ministro degli Esteri ha voluto dimostrare di essere diventato un politico affidabile e soprattutto istituzionale smarcandosi dal populismo del Movimento. Ora inizia una nuova vita e l’orizzonte politico non può che essere il centro. Una prateria affollata, in questo periodo, dove tutti, da Calenda a Renzi, vorrebbero guidare e dirigere i lavori. In questo cantiere aperto il cammino per Di Maio sarà difficile perché sarà visto con distacco. Ma, probabilmente, potrebbe diventare una pedina fondamentale per il successo elettorale di quest’area politica. Si vedrà nelle prossime settimane cosa sboccierà in questo campo.

Il M5S è il partito che più di tutti risente negativamente della fuoriuscita del gruppo guidato da Luigi Di Maio. Tutti i limiti, già evidenti, sono visibili a tutti alla luce del sole. Quasi evaporato nelle urne nell’ultima tornata di elezioni amministrative ed in calo in tutti i sondaggi ora Giuseppe Conte e l’elevato devono cercare di dare una nuova anima ed identità al partito. L’ex Presidente del Consiglio assicura fedeltà al governo Draghi per ‘tutelare gli interessi degli italiani’ ma dietro l’angolo, in vista delle elezioni politiche del 2023, l’uscita dal governo resta sempre un tema caldo. L’uscita di Di Maio dal M5S crea problemi anche al costituendo campo largo e, soprattutto, ad Enrico Letta. Il Pd si ritrova un probabile partito alleato più che azzoppato, senza una guida forte, svuotato numericamente con cui vorrebbe vincere le elezioni e governare il Paese. Ora devono virare, giocoforza, sui contenuti programmatici per giustificare una eventuale alleanza elettorale abbandonando il tema dell’identità politica. Resta l’unica carta utile da giocare ma se Giuseppe Conte dovesse uscire dal governo il campo largo assumerebbe altre sfumature.