Centrodestra da rifondare. I leader divisi su tutto. Il punto di Bisignani
Quale futuro per un Centro destra diviso su tutto. Berlusconi, Meloni e Salvini, che dopo le divisioni alle amministrative, non riescono ancora a parlarsi come sperano di vincere le elezioni? Ecco il corsivo di Luigi Bisignani e pubblicato sul quotidiano Il Tempo.
Caro direttore, a Mario Draghi, sfinito dal caldo e dai fuochi dentro e fuori casa, domani gli tocca persino incontrare il vano, vanesio e vanaglorioso Giuseppe Conte. A destra, invece, «il trio Medusa», non quello delle Iene, ma Berlusconi-Meloni-Salvini non riesce neppure a fissare un pranzo di lavoro, divisi come sono, “masochisticamente”, su tutto.
Un ulteriore pessimo segnale per quei milioni di potenziali elettori che faticano a sentirsi rappresentati dai tre leader nazionali che giocano da soli e non per la squadra e che, come galletti nel pollaio, si beccano a distanza, tra videomessaggi e post. Così Enrico Letta, con il suo “campo largo” alla Tommasi, neosindaco di Verona e ricordato a Roma come «la giovane marmotta», vince perché i suoi avversari non tirano neppure in porta, incassando solo continui autogol.
Il centro più che un progetto politico proprio, anche in relazione all’attuale sistema elettorale, sembra essere capace solamente di avere un potere interdittivo e di veto, soprattutto se non ci sarà l’evoluzione politica, di Governo e di Programma di questo Centro – Destra. Se poi arriva il proporzionale allora sarà tutta un altra musica.
Ma il centrodestra, anziché approfittare della situazione, continua a inseguire l’ennesimo inutile vertice sulla cui tavola ci sono la solita pasta e gelato tricolore. Perché, invece, non comincia almeno a trovare una convergenza su un’agenda condivisa e, magari, a ragionare insieme, da subito, su un governo ombra e su chi possa portarlo avanti, se e quando vincerà le elezioni? Quale classe dirigente, quali ministri e quali manager per le cariche delle grandi aziende in scadenza, sulle quali l’oramai bulimico Francesco Giavazzi ha già l’acquolina in bocca, per poter condizionare la politica industriale per i prossimi cinque anni, magari con le fusioni tra Finmeccanica e Fincantieri, Snam e Terna. O, forse, fanno “ammuina” perché sanno che questo centrodestra uno e trino non ha più una classe dirigente di riferimento, se non piccoli clan che si combattono come dei Tafazzi a colpi di tweet? Eppure, il tempo per recuperare c’è e, come insegna Andreotti, si può risalire solo quando si cade. Da qui a settembre i tre partiti potrebbero almeno mettere attorno a un tavolo sei esponenti in grado di scrivere un programma comune: per Forza Italia potrebbero essere Tajani e la Bernini, per Fratelli d’Italia Crosetto e Lollobrigida, per la Lega Rixi e Bagnai. Pochi punti fondamentali e chiari per capire se c’è ancora una comunanza di vedute, per esempio sul debito pubblico da ridurre e sul Pnrr tutto da riscrivere. In politica estera, siamo di fronte alla prima guerra calda della nuova guerra fredda, ma il centrodestra che posizione ha? Chi sta con la Nato? Chi davvero con l’Occidente? Quali rapporti con la Cina e quali nuovi equilibri si delineeranno in seguito alla guerra scatenata da Putin? Salvini si era detto contrario all’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia e all’invio di armi, mentre Meloni e Berlusconi sono su posizioni opposte. Si prenda, poi, la politica energetica e si rifletta sul nucleare.
E sulle alleanze? Forza Italia con la Lega? Tutti soli o tutti uniti? O Giorgia contro tutti? In Francia, i tre protagonisti delle ultime elezioni, Macron, Le Pen e Mélenchon, sul nucleare erano tutti favorevoli in quanto consapevoli che la vera indipendenza si può ottenere solo se non c’è dipendenza energetica. Da noi, la Meloni frena mentre Salvini spinge addirittura per una centrale nella sua Milano, a Baggio. Scendendo nel pratico: a Roma, sui rigeneratori per uscire dalla pericolosa emergenza rifiuti, in consiglio comunale frange di Fratelli d’Italia sono contrarie, bloccando, di fatto, qualsiasi opera di sviluppo.
E sul fisco? Meloni appiattita sul taglio del cuneo fiscale caro alla Confindustria di Carlo Bonomi mentre Salvini insiste sulla flat tax; per Berlusconi, invece, funziona solo il suo slogan vincente di vent’ anni fa “meno tasse per tutti”. Per non parlare dei vaccini, dove si è scatenato il festival dei colori, dal green al red. Su un unico, sacrosanto, punto sono almeno tutti d’accordo: via il famigerato reddito di cittadinanza. Ma, visto che i tre non riescono ad accordarsi su niente, perché non si pensa a cambiare almeno la regola che serve solo a bloccare lo schema, quella secondo la quale il partito che raccoglie più voti indica il presidente del Consiglio?
A nessuno del trio Medusa, purtroppo, sarà permesso di salire a Chigi e loro stessi lo sanno benissimo a causa di un carosello di veti incrociati tra gnomi della finanza e burocrati europei. E perché non si comincia quindi a ragionare su un premier e su ministri riconoscibili e, soprattutto competenti, come incredibilmente, o forse per sbaglio, fece il primo Movimento 5 Stelle che, nel presentare la sua prima squadra di governo, aveva relegato uno sconosciuto e anonimo Giuseppe Conte a ministro della Funzione Pubblica? Questa potrebbe essere la dimostrazione concreta che c’è davvero visione comune e che l’unione è vera e non creata solo per convenienza elettorale. I nomi ci sono, da Tremonti a Casini, dalla Belloni allo stesso Crosetto, da Massolo alla Moratti.
Se il centrodestra non si mette il vestito dell’alternativa sarà inutile piangersi addosso quando si voterà. E, nel frattempo, Mattarella e Draghi, insieme a Zampetti e Giavazzi, continueranno a giocare con la stessa squadra di calcetto in cui fanno finta di cambiare tutto per non cambiare nulla.