Meloni dichiari guerra ai mandarini di Stato. Il retroscena di Bisignani
Sostituire tutti i mandarini di Stato che gravitano in orbita centro sinistra e che ‘comandano’ nei ministeri chiave altrimenti Giorgia Meloni rischia di inciampare su ogni provvedimento ‘chiave’ che il suo governo vorrà varare. A partire dalla finanziaria. È quanto scrive in un retroscena pubblicato sul quotidiano Il Tempo, Luigi Bisignani. Con un ultimo suggerimento al ministro Giorgetti: “non ascoltare i suggerimenti che provengono dalle colline umbre”, ovvero dall’ex premier Mario Draghi. Caro direttore, SOS manovra anticalcare a Palazzo Chigi. Ora che la legge di bilancio è stata approvata e inizia il suo tradizionale iter burrascoso in Parlamento, Giorgia Meloni, per non rimanere ingorgata, deve iniziare la rivoluzione vera nei gangli dove davvero il potere si esercita: tra i mandarini nei ministeri da subito e nelle aziende pubbliche in scadenza. Con le poltrone chiave quasi tutte in mano a persone irriducibilmente genuflesse al Pd e i centri finanziari da sempre ostili al centrodestra, il presidente del Consiglio sa bene che va operata una vera e propria rivoluzione copernicana se vuole che le decisioni coraggiose che sta mettendo in atto prendano corpo. Del resto, lo «spoil system» degli incarichi pubblici è ormai una prassi consolidata anche nelle più illuminate democrazie. Anche se, a differenza dei primi governi Berlusconi-Gianni Letta, che chiamarono la crème tra i «grands commis de l’État» (Catricalà, Frattini, Monorchio e Masi, per fare qualche nome), va detto che il personale nei gabinetti del governo Meloni, salvo alcune eccezioni, non è certamente di primo livello e questo creerà dei problemi con le direzioni generali. A titolo esemplificativo, non può essere di certo l’Avvocato dello Stato Stefano Varone, onesto e operoso Capo di gabinetto del ministro Giorgetti, a fronteggiarsi con un personaggio chiave come il Dg del Tesoro Alessandro Rivera, da sempre nella galassia Pd e responsabile, assieme alla sua struttura, di scelte a dir poco discutibili. Per citarne solo tre, la vicenda Mps, così cara al Nazareno, poi il ridicolo affaire Alitalia, dove ha sposato una cordata, a dispetto sembra perfino del suo ministro dell’epoca Daniele Franco e dello stesso Super Mario, per poi tornare in queste ore sui suoi passi e, da ultimo, l’imposizione nel cda di Tim del presidente di Cdp Gorno Tempini, pretoriano di Guzzetti e Bazoli, in pieno conflitto di interessi il quale dovrà dimettersi per aver portato avanti, dettando i tempi come un metronomo, la proroga di un’offerta accantonata definitivamente, con la Consob che dovrebbe ora vigilare. E proseguendo su Tim, il ragionamento non può non toccare il sempre più disorientato Dario Scannapieco, fresco di una sontuosa cena al Museo Egizio di Torino dove, oltre alle mummie esposte evocative della sua politica immobilista, è arrivato accompagnato da una pletora di collaboratori. Forse solo per decenza lo stesso Rivera, che a breve dovrebbe essere sostituito al Tesoro da Stefano Cappiello – attuale numero due della direzione generale dopo che il principale pretendente Antonino Turicchi è volato in Ita – ha dato forfait all’ultimo minuto. Sempre su Tim, a parte gli sforzi del suo ufficio stampa, Scannapieco ha cancellato in un flash tutti i suoi propositi di offerta della rete che ha portato avanti per mesi, con il risultato di paralizzare l’azienda, il settore e, fatto ancor più grave, disorientando anche i mercati. Il Governo lo ha talmente sconfessato, senza che lui se ne sia ancora accorto, tanto che il sottosegretario con fresca delega Butti pare stia lavorando a una nuova proposta insieme agli altri protagonisti, a partire proprio dai francesi di Vivendi, che la Cassa di Scannapieco ha invece sempre ignorato. Ma se il tema Tim deve essere «governativo», è il Governo che deve operare per la sua risoluzione e il piano Minerva può rappresentare una soluzione. Cdp dovrebbe infatti coordinare i fondi infrastrutturali per lanciare un’Opa su Tim alla quale anche i francesi di Vivendi potrebbero partecipare ovvero essere liquidati al prezzo di Opa.
Le obiezioni che Cdp non ha la cassa necessaria per realizzare l’operazione sono sterili perché a questo Governo, lungi dal controllo sugli utili, interessa quello sulla governance. Senza contare che comunque Tim ha già venduto circa mezza rete a Kkr e lo stesso ha fatto Cdp con OpenFiber.
Tornando ai mandarini inamovibili, un altro esempio è il posto in Mediocredito Centrale dove, come presidente assieme ad altri mille incarichi, siede l’avvocato Massimiliano Cesare, un napoletano da sempre «tazza e cucchiaino» con Enrico Letta. Comunque, prima ancora di aggiornare il Pnrr all’inflazione, l’Esecutivo dovrà aggiornare i vertici di quella moltitudine di strutture di missione ad hoc di cui il «governo dei migliori» ha infarcito tutti i ministeri.
Per ora, solo Matteo Salvini si è mosso, accettando, si fa per dire, le dimissioni di Giuseppe Catalano, inchiavardato lì sin dai tempi del ministro piddino Delrio. Tra i vertici da aggiornare, la Segreteria tecnica del Pnrr, guidata da Chiara Goretti, e il Nucleo Pnrr Stato-Regioni, che fa capo al Dipartimento per gli Affari Regionali ed è capeggiato da Gianni Bocchieri, inviso alla zarina Licia Ronzulli. Quest’ ultimo, fondamentale per il ruolo che nell’attuazione del Pnrr hanno gli Enti Locali, non è riuscito a sbloccare i colli di bottiglia nel flusso delle risorse dalle amministrazioni centrali a quelle a valle. In quest’ ottica non si capisce perché Raffaele Fitto abbia portato con sé proprio la ex Capo dipartimento degli Affari Regionali, Gilda Siniscalchi, che quegli imbuti ha contribuito a creare.
La Segreteria tecnica, invece, si è limitata nel tempo a ratificare obiettivi raggiunti solo sulla carta e la cui mancata effettiva attuazione costerà cara al governo Meloni, cui verrà ingiustamente attribuita una responsabilità che non è sua. Non mancherà di sottolinearlo alla premier il suo consigliere economico, di recente nomina, Renato Loiero, per vecchie ruggini con la dottoressa Goretti risalenti al periodo in cui lavoravano entrambi al Servizio Bilancio del Senato. Il grande consenso che la Meloni ha nel Paese passa anche dal rimuovere le troppe incrostazioni nel «deep State» senza le quali ogni decisione dell’Esecutivo viene fatta rimbalzare all’infinito. Giorgia continui a fare di testa sua perché così finora ha vinto e non si faccia distrarre dalle sirene che troppo spesso vengono dai Colli più alti o dalle colline dell’Umbria.