Miur: nuove quote blu per la parità
È dal 2011 che le “quote rosa” pongono, sotto i riflettori dei media, l’annoso problema della parità di genere nelle aziende italiane.
I motivi per cui si tende a non assumere donne, oppure si cerca di evitare che ricoprano incarichi di rilievo, anche all’interno di società e brand gestiti da leader donne (il caso Elisabetta Franchi dello scorso anno è l’esempio migliore di uno scandalo, in realtà, molto diffuso), sono molteplici, ma tutti di natura culturale. Così come di sola natura culturale è l’idea per cui alcuni lavori beneficino di un pensiero e un modo di fare femminile, piuttosto che di uno maschile: ben il 74% della popolazione è convinta che il genere debba avere un ruolo rilevante nella scelta professionale. Le conseguenze di questo pensiero comune, silenzioso ma, in fondo, neanche troppo, sono ben visibili: secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione, le donne ricoprono bel l’83% dei posti dietro le cattedre italiane. Una percentuale in crescita costante dagli anni’60 in poi, la testimonianza che i pregiudizi rimangono e rendono il cambiamento pressappoco impossibile. Ma il Miur, in questo senso, non intende arrendersi.
Da qui, la legge che prevede l’inserimento di “quote blu” nel prossimo concorso per dirigenti scolastici. Come recita l’articolo in questione: “a parità di punteggio e considerate le percentuali di rappresentatività di ciascun genere in ogni regione, la preferenza sarà in favore del genere maschile”. Un inaspettato rovesciamento che non è passato inosservato a sindacati e presidi: secondo le dichiarazioni del segretario di Uil Scuola, Giuseppe d’Aprile, le quote introdurrebbero “meccanismi di falsa uguaglianza”. Il Ministero risponde a critiche e perplessità, giustificando la sua scelta in nome di una legge proposta per l’interezza della pubblica amministrazione, non soltanto per la scuola e che, per lo più, basandosi su una semplice “preferenza”, non andrebbe ad intaccare i risultati del concorso. Ma nel mezzo tra le due fazioni, si pone, forse, l’unica questione davvero rilevante del caso: per quale motivo il genere maschile non sceglie l’insegnamento come professione (almeno nei gradi di istruzione inferiore, visto che, negli atenei italiani, i professori uomini sono circa il 75% del totale)?
In una società che vede soltanto l’insegnamento, nei gradi di istruzione superiore, come validante a livello professionale, è facile capire il motivo di una tale “genderizzazione” (o disparità di genere, che dir si voglia) del settore. Un modello che ghettizza chi, invece, ha compreso l’importanza e la responsabilità di rimuovere il marcio dall’interno, insegnando a bambini e ragazzi piuttosto che ad adulti formati. Le “quote”, di qualsiasi colore e tipo, sono spie di un fallimento profondo nel tentativo di raggiungere la parità concreta, un piccolo cerotto per cercare di guarire una ferita infettata da secoli.
Ma l’Anp (Associazione Nazionale dei Dirigenti Pubblici) chiede di non stigmatizzare la norma e attendere il prossimo concorso per giudicare l’efficacia del cerotto.
di Alice Franceschi